Ci vogliono 270 giorni per uscire dalla bolla che ci ha nutriti, amati, attesi.
Forse per questo, quando stiamo male, proviamo a ricostruirla, a ricreare una parete che ci protegga dal gelo incurante di quello che siamo.
Come è successo a Giulia, spostata a scuola da un posto all’altro con la convinzione che questo possa servire a catturarne l’attenzione, derisa dai compagni perché diversa, lasciata da sola in casa dai genitori il giorno del compleanno. Esperienze che Giulia porterà dentro per sempre, assieme al dolore nell’animo che ricompare con il ricordo.
A volte è la malattia a spingerci dentro una bolla. All’improvviso. Come Erika, rappresentativa dei 1500 bambini affetti ogni anno da leucemia e altre patologie oncologiche nel nostro Paese. Obbligati a lasciare la vita di tutti i giorni per entrare in una dimensione nuova e innaturale. La vita di Erika nella malattia è fatta di paura, separazione, confusione, tristezza, noia, colpa per essersi ammalata. Bisogno di sentirsi ancora parte di una scuola e di una squadra. Cercata. Mentre la solitudine dentro una stanza di ospedale le sta togliendo la speranza.
Dentro la bolla si può finire per motivi diversi. A volte perché non ci sono alternative. Rifugio sicuro che protegge dalla paura del fallimento e dalla sofferenza. Molti adolescenti decidono di vivere così. Per poter tirare avanti.
Uscire dalla bolla significa rinascere. Dalla sofferenza dell’animo e del corpo.
Essere finalmente visti e sentiti.
Postfazione del dr. Roberto Dall'Amico, direttore del Dipartimento Materno Infantile dell’Azienda Sanitaria Friuli Occidentale
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